Mi dispiace, ma mi manca il "periodo sciocco"

In un mondo in grande fermento e con l'Europa in stato di guerra – finora limitata all'Ucraina – il desiderio di pubblicare, come di consueto, l'assurdità caratteristica di questa stagione estiva chiamata balneazione sembra essere svanito. Con questo testo ho semplicemente voluto esprimere la mia indignazione per questa situazione anomala.
Cosa hanno in comune, o in comune, il nostro principe Enrico il Navigatore e l'americano Steve Jobs? Li ho incontrati qualche giorno fa in una libreria di Lisbona, fianco a fianco, guardandosi con deferenza: era solo curiosità reciproca o era semplicemente la conferma dell'immenso rispetto che ciascuno nutriva per il loro illustre e occasionale vicino? Dopotutto, nessuno negherebbe che abbiamo a che fare con due figure altrettanto brillanti che hanno decisamente sconvolto i ritmi e le ambizioni delle persone delle rispettive epoche.
Ai suoi margini, in un angolo ragionevolmente illuminato, conversavano tranquillamente, senza accorgersi di essere osservati, altri due personaggi celebri, certamente degni di essere menzionati in qualsiasi “Who’s Who” universale, Vladimir Illich Ulianov e Thomas Edward Lawrence: se è vero che entrambi furono protagonisti, a loro tempo e nelle loro circostanze, di una grande avventura - e quindi di un’apparente armonia -, io rimasi tuttavia a bocca aperta di fronte a quella pacifica miscela, senza visibili danni collaterali, di petrolio e acqua.
Proseguii, passo dopo passo, in questo viaggio visivo e, pochi centimetri più avanti, un'altra coppia catturò la mia attenzione: le Loro Maestà D. João VI del Portogallo e la Regina Elisabetta II d'Inghilterra, seduti sui loro troni, si congratularono a vicenda per l'antica amicizia tra i loro regni, sottolineando il grande beneficio di questa reciproca comprensione, nonostante la chiara asimmetria tra loro: il nostro Re non poteva dimenticare, in particolare, il ruolo decisivo delle quattro navi della Marina britannica inviate dall'ammiraglio Sidney Smith per scortare la squadra portoghese che aveva trasportato la famiglia reale, parte della Corte e funzionari, per un totale di circa 11.000-15.000 persone, nell'Atlantico, verso il Brasile. In questo modo, si era evitata la mainmise francese nel governo del Regno. A titolo di curiosità, e secondo l'interessante libro di recente pubblicazione «D. Carlota Joaquina tra il dovere e la trasgressione»-, lo stesso Napoleone avrebbe ammesso, già in esilio a Sant'Elena, che D. João fu l'unico monarca ad averlo ingannato con successo.
Sulla parete opposta, distinto dalla sua voce profonda e grave, il gollista André Malraux rispondeva alle numerose domande che il suo contemporaneo Federico Garcia Lorca, a un metro e mezzo di distanza, gli rivolgeva. Confesso di non aver osato avvicinarmi ai due per paura di interrompere la loro vivace conversazione, ma ciò nonostante non mi è sfuggito il modo divertente in cui entrambi stavano compiendo il loro destino: se in precedenza si erano ribellati all'arbitrarietà del libraio nella scelta apparentemente sconnessa del luogo che avrebbero d'ora in poi occupato, cambiarono presto idea quando si resero conto della preziosa opportunità che si offriva loro, di divagare in compagnia di interlocutori più o meno improbabili.
La musica dolce che presto cominciai a sentire proveniva dalla libreria immediatamente sottostante, dove, eccezionalmente, António Carlos Jobim aveva lasciato il suo tranquillo ritiro pubblico: prendendo alcune sue composizioni e testi di Vinícius de Moraes, incantava i suoi compagni amanti della musica – diventati spettatori – da quelle tribune improvvisate. Con discrezione, tra gli altri, riconobbi anche il sereno e colto Joaquim Paço d'Arcos, romanziere-drammaturgo-saggista e poeta: intuii allora l'intima gioia che avrebbe provato in quel momento.
Stavo lasciando quell'angusta stanzetta per dirigermi verso la porta che dava sulla strada, quando udii un forte schianto, tipico di un corpo di libro che cade da uno scaffale alto: mi recai immediatamente sul luogo dell'incidente e, chinandomi, lo raccolsi. Con la copertina nera e il peso di non più di trenta pagine scheletriche, lo riconobbi senza difficoltà – solo la sua lunga barba era visibile – il temuto Vladimir Lefimovitch Novikh, ovvero il folle Rasputin. Per quanto sicuro di sé fosse stato, al tempo dei Romanov, nelle sue profezie apocalittiche, tutta quella postura era da tempo scomparsa: debole e abbattuto, non riusciva nemmeno ad articolare una frase completa. Così mi ritrovai costretto a lasciarlo, nel suo e nel mio disorientamento, sul tavolo più vicino.
Finalmente sono uscito e ho salutato Fernando Pessoa. Gli ho raccontato del mio insolito viaggio e lui ha risposto in un lampo: "Viaggiare? Per viaggiare, basta esistere! Il viaggio è il viaggiatore: ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo". E senza ulteriori indugi, è tornato, come se nulla fosse accaduto, al suo consolidato status di statua turistica-municipale.
Dopo, scesi (con) Chiado, e risi molto agli attacchi scherzosi e satirici del nostro illustre poeta di Évora.
observador